Dio si serve di cause seconde
 
 
     

 

Mi resi subito conto che si trattava di una prigione anche se mancavano del tutto gabbie o sbarre o strumenti di coercizione che ne testimoniassero la reale destinazione.
Al centro, un tavolaccio di legno consunto dagli anni e con vistosi tagli trasversali, come se questo fosse stato un tempo utilizzato in quelle macellerie paesane dove il garzone di turno utilizza l’ascia come unico strumento lecito per spaccare i quarti di bue che il padrone via via gli indica.
Rabbrividii a quel pensiero immaginando altri suoi possibili impieghi ma non ebbi tempo di far lavorare la fantasia; il processo era già iniziato ed io stesso ero l’imputato, anche se non avevo ancora inteso quale fosse l’accusa che mi si muoveva.
I giudici, quattro in tutto, erano assisi su degli scanni enormi ed apparivano perciò minuti e fragili pur nella loro funzione assoluta di delineare lo spartiacque ultimo tra la vita e la morte.
Erano immobili e sembravano in attesa che si compisse un evento straordinario di cui il sacerdote, quasi ingabbiato in un pulpito ligneo posto di fronte a loro, era l’artefice. Quest’individuo, che identificai immediatamente nel cardinale Freeman, stava officiando un rito pagano, tenendo nella mano sinistra un gallo multicolore e nella destra un gancio a cui erano appesi dei libri minuscoli, legati tra di loro quasi a formare una catena che, nell’oscillazione cadenzata che accompagnava la sua liturgia, sfiorava ritmicamente il suolo.
Una musica assordante, di canne d’organo antiche di cui si percepiva più l’ansare asmatico che il suono stesso, copriva completamente le parole dell’officiante che concionava incessantemente, brandendo il gallo oramai stremato quasi fosse una spada di fuoco. Intesi solo una parola ed era il mio nome.
Vidi allora i quattro giudici, all’unisono, girare la testa rinsecchita verso la mia postazione rimanendo fissamente impalati a scrutarmi nel volto e nell’anima. Rabbrividii di nuovo e mi accorsi che un vento gelido frammisto a neve e ghiaccio si era improvvisamente introdotto dalle feritoie che, a spazi regolari, fendevano i muri millenari di quel luogo di sofferenza infinita.
Non seppi resistere oltre e gridai la mia innocenza rimanendo incredulo nel sentirmi uscire dalla bocca il nome di Satana.